Perché non bastano gocce e pastiglie

Articolo pubblicato sulla rivista “Animazione Sociale” di settembre/ottobre 2016
Tratto da un intervento del Dott. Andrea Materzanini di giugno 2016

 

PERCHE’ NON BASTANO GOCCE E PASTIGLIE
SE LA SALUTE MENTALE E’ DATA DA CASA, LAVORO E RETE SOCIALE

(…)

Cura è riabilitazione

Alla luce delle cose dette, si capisce che quando parliamo di riabilitazione, che è fatta di lavoro, casa e rete sociale, noi in realtà stiamo parlando di cura. La riabilitazione non è una tecnica, ma è l’essenza della cura.

Far sì che la disabilità non sia un handicap

Questo allora è il senso del nostro operare nella salute mentale: costruire percorsi di normalità che facciano sì che una persona con disabilità possa avere un bassissimo handicap. La disabilità – lo sappiamo – non è l’handicap. Diventa un handicap se l’ambiente è privo di supporti adeguati, se non offre opportunità di inclusione, se è stigmatizzante. Per questo oggi occorre creare condizioni di diritto per le persone, contesti sociali ospitali e non espulsivi.

Abbassare l’handicap significa includere la disabilità. E lo si può fare in tanti modi: facendo cultura nel territorio, creando attività imprenditoriali che producano non solo reddito per le persone inserite, ma anche valore sociale per il territorio. Penso a questo proposito all’esperienza di Cascina Clarabella, che è sede di una comunità riabilitativa e di un centro diurno. Ma è anche sede di un agriturismo in Franciacorta, di attività didattiche, di una cantina che produce dell’ottimo vino, di un centro convegni e di molto altro.

Ai bambini delle scuole che vengono a trascorrere una mattinata in fattoria didattica o ai turisti che frequentano l’agriturismo, poco importa se abbia o meno la schizofrenia chi tiene in ordine le camere, chi impasta il pane con loro, chi parla di prodotti biologici o di energia pulita. Essenziale è essersi trovati bene. E aver visto che si può fare un’impresa economica sostenibile, capace di moltiplicare i legami sociali e le opportunità di vita per aiutare le persone a ritrovare se stesse.

Questi luoghi (e in Italia ce ne sono) vanno oggi promossi e difesi. La loro costitutiva fragilità richiama tutti noi a un’assunzione di responsabilità.

 

Difendere ciò che abbiamo conquistato

Vorrei chiudere proprio riaffermando il valore di quanto costruito in questi anni in molti luoghi d’Italia nel campo della salute mentale.

Benedetto Saraceno, per 18 anni direttore del Dipartimento per la salute mentale dell’Oms, ha recentemente presentato una mappa di come nel mondo sono trattate le persone con problemi di salute mentale. L’85% – ha detto – non ha nessun trattamento. Vuol dire che se un ragazzo incontra la schizofrenia in tante regioni dell’Africa, della Cina, del Sud America, del Centro-America, molto probabilmente non avrà nessuna cura.

In questa percentuale sono compresi anche tutti quelli che vivono nel mondo occidentale e non accedono ai servizi. Non dobbiamo pensare solo al contadino nelle risaie cinesi, ma anche alla famiglia che risiede nella pianura padana e dice «mio figlio non è matto».

Rimane un 15%. Di questo 15% la metà sarebbe meglio non avesse nessun trattamento. Perché se la risposta del Nicaragua al problema della salute mentale è costruire un manicomio dove gli internati sono malmenati, bombardati di farmaci e legati, meglio sarebbe essere ignorati.

Rimane un 7%. Di questa minoranza il 6% ha un trattamento decoroso: ossia una corretta somministrazione di farmaci, una corretta impostazione del percorso di cura. Ma solo l’1% gode di un trattamento di qualità.

Ora credo che molti servizi di salute mentale in Italia appartengano all’1%. Non dobbiamo dimenticarlo. Questo fatto dà a chi porta avanti questi servizi, queste cooperative, queste esperienze, oltre che un motivo di orgoglio, anche un carico di responsabilità. Perché è un attimo tornare indietro.

Franco Rotelli dice sempre «conquistate e difendete. Ma difendete quello che avete conquistato». Perché la logica dell’elmo del silenzio è sempre in agguato. Allora mantenere e migliorare ciò che abbiamo costruito in questi anni è l’impegno a cui siamo oggi chiamati.

 

 

 

 

 

 

 

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